In Ricordo di LUCA SERIANNI

 

Il Professor Luca Serianni, Emerito di Storia della Lingua Italiana alla Sapienza di Roma, ci ha lasciati oggi, 21 luglio 2022.

Abbiamo appreso la notizia con sgomento e dolore, increduli e fortemente colpiti, quasi incapaci di trovare le parole per dire il nostro rammarico, che è del Direttore di IPRASE e, con lui, di tutto il personale dell’Istituto, di tutti coloro, docenti e non, che hanno avuto il piacere e l’onore di collaborare con il Professore nelle molteplici occasioni e attività promosse sulla didattica dell’Italiano.

In questo momento di dolore, IPRASE intende esprimere il suo cordoglio ai Familiari del Professore, da sempre collaboratore e amico del nostro Istituto, ricordandone le universalmente riconosciute qualità di studioso e storico della Lingua e della Grammatica italiana, ma anche la puntualità e la costante disponibilità, le straordinarie doti di cortesia e di umana gentilezza che ne hanno sempre contraddistinto l’operato e il modo di essere.

Si riporta di seguito l’intervista che il professor Serianni ci ha concesso in data 5 settembre 2021, in occasione delle celebrazioni dantesche promosse da IPRASE, che hanno avuto proprio nell’incontro tenuto dal Professore il loro inizio.

 

1. Professor Serianni, si sta chiudendo l’anno delle celebrazioni dantesche, che ha visto numerose iniziative e pubblicazioni dedicate, anche ad opera di non specialisti. Qual è il suo giudizio al riguardo?

​È un giudizio pienamente positivo. Intanto sono usciti volumi molto significativi sulla vita di Dante (Barbero per Laterza, 2020; Pellegrini per Einaudi, 2021; Brilli e Milani per Carocci, 2021); nuovi commenti (Mercuri per Einaudi, 2021 e, proprio in questi giorni, la prima parte del commento di Malato per Salerno: per ora Inferno, 1-17). Poi, è stata molto positiva la reattività delle scuole, ad opera degli insegnanti, ma anche non di rado dei ragazzi. E questo è certamente un buon indicatore della vitalità di Dante.

 

2. Ogni anniversario e ogni celebrazione comportano sempre un certo grado di retorica. Ritiene che in questo caso il rischio sia stato evitato?

Dire “evitato” sarebbe troppo; ma insomma non si è esagerato. Soprattutto, c’è stato un diffuso coinvolgimento, che ha riguardato, oltre che le istituzioni, anche i singoli cittadini.

 

3. Dante è senza dubbio un’icona di “italianità” (e i trentini che attraversano ogni giorno la piazza antistante la stazione lo sanno bene…), ma è anche, indubitabilmente, municipale e fiorentino. Com’è possibile, secondo Lei, conciliare questi due aspetti?

In fondo, in una realtà pluricentrica come l’Italia, quella di Dante è un po’ la condizione di ciascuno di noi. Lo aveva perfettamente intuito Carlo Azeglio Ciampi, al quale si deve la riscoperta e la valorizzazione del concetto di patria. Ciampi diceva di sentirsi prima di tutto livornese, poi toscano, poi italiano, poi europeo. Le prime tre condizioni (sull’Europa i tempi non mi sembrano maturi, se mai lo saranno) sono quelle proprie di gran parte dei cittadini italiani: il senso di appartenenza regionale viene meno ed è riassorbito in quello locale solo nelle regioni o province autonome (Trentino, Val d’Aosta), nelle regioni che risultano dalla fusione di territori culturalmente e storicamente distinti (guai a definire friulani i triestini!) o di formazione relativamente recente (un romano o un viterbese che si definissero laziali non farebbero riferimento alla regione, ma al tifo calcistico).
 

4. Dante e la scuola o, meglio, Dante nell’insegnamento scolastico: quali sono i suggerimenti che si sentirebbe di dare ai docenti, in particolare per quanto attiene all’insegnamento della Commedia?

Per la secondaria di primo grado (la scuola media, come sarebbe più semplice tornare a chiamarla) Dante deve essere proposto solo se l’insegnante ne è un appassionato lettore; in questo caso la sua lezione sarà proficua. In caso diverso, si può tranquillamente rinviare l’incontro col poeta al triennio della secondaria di secondo grado. Qui mi sembra indispensabile che, nei modi più consoni ai vari corsi, Dante sia affrontato in ogni caso. Nel professionale o nel tecnico agrario ci si potrà limitare agli episodi più famosi del poema, privilegiando l’Inferno; nei licei classico e scientifico bisognerebbe non solo allargare la lettura del poema, ma mettere in evidenza le novità delle altre opere. Dante è il primo a compiere una riflessione sulla lingua e a passare in rassegna i vari dialetti italiani (nel De vulgari eloquentia), è il primo a scrivere un trattato filosofico-scientifico in lingua italiana (il Convivio). Ci sono anche temi che toccherei in tutte le scuole. Per esempio il fatto che, non conoscendo autografi di Dante, il testo delle sue opere può essere solo ricostruito, sia pure con un buon grado di probabilità. Sfruttare la tecnologia per far vedere alcune pagine della Commedia nei manoscritti medievali mi pare un’esperienza interessante per tutti i ragazzi.
 

5. Dante è un uomo del Medioevo, storicamente e culturalmente distante dalla realtà degli studenti e delle studentesse di oggi. Una distanza che è anche linguistica. Cosa si può fare, concretamente, per superarla e avvicinare studenti e studentesse a una lettura il più possibile consapevole e proficua?

Intanto, farei notare quanta parte del lessico di Dante sia viva ancora oggi e magari sia attestata per la prima volta proprio nella Commedia: muso, azzannare, muffa, fertile… Poi mi soffermerei su alcune differenze di cui oggi sopravvive qualche traccia. Oggi non useremmo l’articolo lo in rimirar lo passo, ma nell’italiano antico si usava sempre lo quando la parola precedente terminava per consonante e attualmente continuiamo a dire per lo meno e per lo più. Oggi non useremmo il pronome enclitico in Stavvi Minòs orribilmente, ma l’italiano antico prevedeva l’enclisi obbligatoria all’inizio di frase: ancora oggi nell’imperativo affermativo, che si trova sempre all’inizio di frase o comunque dopo una pausa, la pratichiamo (Dimmi!), mentre nell’imperativo negativo, quando la prima parola è non, possiamo alternare Non dirmi! o Non mi dire!.
 

6. Che cosa dovrebbe caratterizzare, secondo Lei, l’atteggiamento dei docenti impegnati su Dante? E, per quanto riguarda il primo ciclo, che cosa si potrebbe proporre?

Come qualsiasi materia, è indispensabile che l’insegnante creda in quello che fa, anzi direi proprio che “si diverta” a parlarne. Vale anche per le frazioni, i polimeri o la filosofia di Aristotele. Nel caso di Dante, trattarne solo perché “c’è nel programma” significa partire col piede sbagliato: oltretutto i “programmi” rigidi non esistono più e le “indicazioni nazionali” sono qualcosa di diverso. Nel caso della primaria, alcuni aspetti si presterebbero bene a una ricezione da parte dei giovanissimi alunni. Pensiamo alla gerarchia dei peccati (chi oggi, anche tra i credenti, considererebbe un peccato la gola?), al dinamismo teatrale di certi canti (i diavoli nella bolgia dei barattieri), al rapporto maestro-discepolo (Dante-Brunetto, Dante-Virgilio) e, più in generale, alla possibilità di valorizzare il rapporto testo-immagine, anche attraverso disegni da parte dei bambini.
 

7. Un’ultima domanda, che interpella il Serianni professore di Storia della lingua italiana e il Serianni lettore. Quali sono i canti della Commedia che ama di più e per quali ragioni? (La scelta è limitata: non più di due per ogni cantica).

Domanda difficilissima: si potrebbe dire che con la Commedia si sceglie sempre bene; ma sto volentieri al gioco. Per l’Inferno direi XIX e XXX. Il XIX è il canto dei simoniaci, dei religiosi che hanno fatto commercio delle cose sacre; con una straordinaria invenzione, Dante immagina che il dannato, il papa Niccolò III, lo scambi per Bonifacio VIII, morto nel 1302 (come è noto, Dante colloca il viaggio nel 1300, e comincia a scrivere il poema non prima del 1305-1306). Non solo: si annuncia anche la dannazione di Clemente V, un «pastor sanza legge», che sarebbe morto nel 1314, quando Dante aveva già scritto questo canto. Il XXX mette in scena una vera e propria rissa tra due falsari, maestro Adamo e Sinone, e Dante vi dispiega la sua robusta capacità di rappresentare un dialogato vivacissimo, fitto di parole “comiche”, cioè basse e triviali. Quanto al Purgatorio, scelgo il V e il XXIII. Il primo presenta tre morti di morte violenta, che scontano una pena preliminare nell’Antipurgatorio. I primi sono due guerrieri, Iacopo del Cassero e Bonconte da Montefeltro, e Dante ne rappresenta la morte con effetti iper-realistici («lì vid’io / delle mie vene farsi in terra laco», «arriva’io forato nella gola, / fuggendo a piede e sanguinando il piano»); la terza è una nobildonna senese, Pia, uccisa dal marito per motivi oscuri: la rievocazione spicca per riserbo (potremmo proprio dire: per femminile riserbo): del mio assassinio, dice Pia, è responsabile mio marito, «colui che ‘nnannellata pria / disposando m’avea con la sua gemma». Il XXIII è il canto di Forse Donati, l’amico della giovinezza dissipata; il periodo di traviamento è evocato da una suggestiva allusione del Dante agens: «se tu riduci a mente / qual fosti meco e qual io teco fui, / ancor fia grave il memorar presente». Infine il Paradiso: IX e XXXIII. Nel canto IX siamo nel cielo di Venere ed è questo l’unico canto, prescindendo da quello degli spiriti del cielo della Luna, venuti meno a un voto perché hanno subito violenza, nel quale emerga il vissuto peccaminoso dei personaggi, in particolare Cunizza da Romano, anche se completamente dissolto dalla beatitudine di cui tutte le anime del Paradiso godono. Quanto all’ultimo canto, è una scelta obbligata: è il canto in cui Dante approda alla visione di Dio e supera sé stesso, non nel rappresentarla (sfida impossibile), ma nel suggerirne l’eco, «il dolce che nacque da essa».